Appunti in materia di armi

Appunti in materia di armi

 

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1 – Normativa di riferimento

La regolamentazione delle armi nel nostro ordinamento è contenuta nei seguenti provvedimenti normativi:
Legge n.100/1958 – Uso delle armi da parte dei militari e degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria in servizio alla frontiera e in zona di vigilanza;
Legge n.895/1967 – Disposizioni per il controllo delle armi;
Legge n.694/1974 – Disciplina del porto delle armi a bordo degli aeromobili;
Legge n.110/1975 – Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi;
D.M. 14 aprile 1982 – Regolamento per la disciplina delle armi antiche, artistiche o rare di importanza storica;
Legge n.85/1986 – Norme in materia di armi per uso sportivo;
Legge n.36/1990 – Nuove norme sulla detenzione delle armi, delle munizioni, degli esplosivi e dei congegni assimilati;
Legge n.185/1990 – Norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento;
D.lgs. n.527/1992 – Attuazione della direttiva 91/477/CEE relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi;
Legge n.496/1995 – Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla proibizione dello sviluppo, produzione, immagazzinaggio ed uso di armi chimiche e sulla loro distruzione, con annessi, fatta a Parigi il 13 gennaio 1993;
Legge n.374/1997 – Norme per la messa al bando delle mine antipersona;
D.M. 2 ottobre 1998 – Disciplina della distruzione delle scorte di mine antipersona;
Legge n.420/2000 – Adesione della Repubblica italiana alla convenzione sul contrassegno degli esplosivi plastici e in foglie ai fini del rilevamento, con annesso, fatta a Montreal il 1° marzo 1991;
D.M. n.362/2001 – Regolamento recante la disciplina specifica dell’utilizzo delle armi ad aria compressa o a gas compressi;
Legge n.95/2011 – Ratifica ed esecuzione della Convenzione di Oslo sulla messa al bando delle munizioni a grappolo, fatta a Dublino il 30 maggio 2008, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno;
D.lgs. n.121/2013 – Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 26 ottobre 2010 n.204.

 

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2 – Introduzione

È opportuno ricordare, anzitutto, che nel sistema giuridico italiano, a differenza di altri (1), non esiste una norma (di rango costituzionale o non) che garantisce a tutti i cittadini il diritto assoluto al porto o alla detenzione di armi; pertanto, il porto d’armi — che presuppone una autorizzazione da parte dell’Autorità amministrativa — costituisce una eccezione al normale divieto di portare armi di cui agli artt. 699 cod. pen. e 4 l. 110/75 (2).

 

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3 – Questioni ricorrenti nella disciplina delle armi

Premesso quanto sopra, con queste note si intendono affrontare, per grandi linee, i problemi interpretativi che si presentano in sede di concreta applicazione della normativa in questione.

I – Distinzione tra armi proprie ed improprie

Secondo la giurisprudenza di legittimità (3), il discrimine tra le contravvenzioni rispettivamente previste dagli artt. 699 cod. pen. e 4, secondo e terzo comma, legge n. 110 del 1975 risiede nel fatto che la prima fattispecie ha ad oggetto le armi cd. ‘proprie’, la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona (e di cui è ammesso il porto solo previa licenza, ove concedibile), mentre la seconda ha ad oggetto le armi cd. ‘improprie’, ossia gli altri strumenti da punta o da taglio, e gli altri oggetti utilizzabili anche per l’offesa alla persona ma a ciò non ordinariamente deputati (di cui è ammesso il porto solo in presenza di giustificato motivo).
Tale distinzione risiede non tanto nelle caratteristiche costruttive e strutturali dei singoli strumenti e nella idoneità all’offesa alla persona, spesso comuni ad entrambe le categorie, quanto piuttosto nella individuazione, tra tutte le possibili destinazioni, di quella principale corrispondente all’uso normale, da accertare con specifico riferimento a quello che rappresenta l’impiego naturale dei singoli strumenti in un determinato ambiente sociale alla stregua dei costumi, delle usanze e delle esperienze affermatisi in un dato momento storico (4). Le caratteristiche suddette vengono, comunque, in ausilio, essendo normalmente qualificabili armi proprie il coltello «a scatto» (di cui è vietato il porto in modo assoluto, non essendo ammessa licenza da parte delle leggi di pubblica sicurezza), ovvero l’arma caratterizzata da punta aguzza e doppio filo di lama, generalmente definita pugnale a meno che non abbia mero uso sportivo (5).
Il “manganello” o “sfollagente” (ivi compreso il manganello retrattile) è esplicitamente compreso tra le armi indicate nell’art. 4, comma primo, della legge n. 110 del 1975 di cui è vietato il porto, salvo le autorizzazioni previste dall’art. 42 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773, in quanto strumento la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona (6).
Il porto in luogo pubblico di una bomboletta contenente ‘spray’ a base di “oleoresin capsicum” (principio estratto dalle piante di peperoncino) integra la contravvenzione di cui all’art. 4, comma 2, legge 18 aprile 1975, n. 110, nel caso in cui le particolari circostanze di tempo e di luogo della detenzione depongano per la destinazione della ‘res’ a finalità illecita e del tutto incompatibile con quella di autodifesa, per la quale è normativamente consentito il porto in luogo pubblico (7).

 

II – Distinzione tra armi da guerra ed armi comuni

Ai sensi dell’art. 1 legge 18 aprile 1975, n. 110, sono armi da guerra le armi di ogni specie che, per la loro spiccata potenzialità di offesa, sono o possono essere destinate al moderno armamento delle truppe nazionali o estere. Al riguardo è sufficiente l’idoneità d’impiego, mentre non è decisivo il fatto se l’arma sia o meno attualmente in dotazione di corpi o reparti di Forze armate, nazionali o straniere (8).
La spiccata potenzialità offensiva di un’arma, quale elemento idoneo a determinarne la destinazione, attuale o anche solamente possibile, all’armamento di truppe, e quindi la sua classificazione tra quelle da guerra, deve essere accertata non in astratto, ma in concreto, attraverso l’attenta disamina delle specifiche tecniche, rispetto alle quali assume particolare rilievo la consulenza degli esperti del settore (9).
Con riferimento ai proiettili, ad esempio, si ritiene qualificabile come arma comune da sparo la pistola semiautomatica Beretta calibro 9×19 parabellum, con il corrispondente munizionamento, a fronte della pacifica qualificazione normativa come arma comune da sparo della pistola semiautomatica calibro 9×21, liberamente commerciabile sul mercato interno, che costituisce un modello di arma corta da fuoco munita di caratteristiche tecniche, e di capacità balistiche, pressoché identiche a quelle del modello 9×19 (10).
Va poi ricordato che il Banco nazionale di prova (BNP) di cui all’art. 11, secondo comma, legge n. 110 del 1975, a seguito della soppressione del Catalogo nazionale delle armi, ha il compito di verificare, per ogni arma prodotta, importata o commercializzata in Italia, la qualità di arma comune da sparo, nonché la sua corrispondenza alle categorie di cui alla direttiva europea CEE/477/91, e succ. mod., inserendo la relativa valutazione in database pubblico, liberamente consultabile.
Tale valutazione, da cui dipende la possibilità di legale detenzione dell’arma in Italia, ha valore vincolante “in negativo” per il giudice, che non può disattenderne il contenuto implicito di esclusione dal novero delle armi da guerra. Con riferimento all’abolito Catalogo nazionale delle armi, era stata evidenziata la funzione meramente ricognitiva delle iscrizioni ivi contenute, che non condizionavano la possibilità di attribuire ad uno strumento di offesa la qualità di arma da sparo, collegata direttamente a requisiti legali (11). Inoltre, è stato sottolineato come la finalità della classificazione, ora dislocata presso il Banco nazionale di prova, fosse quella di delimitare la distinzione tra armi comuni da sparo e armi da guerra, soggette a distinto regime sanzionatorio (12). Va poi ricordato che la detenzione di un bossolo esploso relativo a munizioni da guerra integra il reato di cui all’art. 2, legge 2 ottobre 1967 n. 895 a condizione che il giudice ne verifichi la concreta idoneità a porre in pericolo il bene giuridico tutelato dell’ordine pubblico e della pubblica incolumità in relazione alla possibilità di una sua agevole riutilizzazione nel corpo di una nuova munizione (13).

III – Concorso tra detenzione di armi da guerra ed armi comuni

La detenzione illegale di più armi in un unico contesto di tempo e di luogo integra non un reato continuato ma un singolo reato, potendo il numero delle armi rilevare solo ai fini della determinazione della pena; a sostegno di tale soluzione si è evidenziata la differenza che intercorre, sia sul piano strettamente semantico, che su quello delle categorie giuridiche, tra atti ed azione e la possibilità che una condotta sia costituita da più atti, quando essi siano caratterizzati dalla convergenza verso un unico scopo e dalla loro contestualità. Inoltre, milita nello stesso senso anche la irrilevanza della circostanza fattuale del numero delle armi al fine di individuare illeciti distinti per il riferimento, contenuto nell’art. 2 legge n. 895 del 1967, alla detenzione di “armi”: l’uso del sostantivo plurale rende possibile che oggetto del delitto di detenzione siano anche più beni e non uno soltanto (14).
Infine, va ricordato che l’art. 7 legge n. 895 del 1967, come modificato dall’art. 14 legge n. 497 del 1974, non configura una circostanza attenuante rispetto ai delitti di cui ai precedenti articoli da 1 a 4, ma altrettanti autonomi reati, caratterizzati dalla diversità dell’oggetto, corrispondendo a tale natura l’autonomia, altresì, della relativa sanzione.

IV – Detenzione e porto illegale di arma

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno statuito che i delitti di detenzione e porto illegali in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo (ex artt. 2, 4 e 7 legge 2 ottobre 1967, n. 895, come sostituiti dalla legge 14 ottobre 1974, n. 497) non concorrono formalmente con quelli, rispettivamente, di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico della stessa arma clandestina (ex art. 23, primo, terzo e quarto comma, legge 18 aprile 1975, n. 110), essendo queste seconde disposizioni, di natura speciale, destinate a trovare esclusiva applicazione (15).
In tema di reati concernenti le armi, come pure le munizioni, gli esplosivi ed i congegni indicati nell’art. 1 legge n. 895 del 1967, il delitto di porto illegale assorbe per continenza quello di detenzione, escludendone il concorso materiale, soltanto nel caso in cui le due condotte inizino contestualmente, esistendo la prova della mancata detenzione pregressa (16). In sostanza, l’assorbimento si fonda sull’unità naturalistica del fatto, integrante entrambe le fattispecie, e resta esclusa solo allorché l’agente ponga in essere una pluralità di condotte nell’ambito di una progressione criminosa.
Con riferimento al concetto giuridico di detenzione, essa si identifica in una generica disponibilità della cosa e prescinde da qualunque considerazione temporale e dalla possibilità di un utilizzo immediato (17). È quindi necessario soltanto quel minimo di permanenza del rapporto materiale tra detentore e cosa detenuta, che valga ad escludere una disponibilità del tutto momentanea e precaria dell’arma (18); il delitto di detenzione abusiva delle armi è quindi configurabile a fronte di una protratta disponibilità, interrotta solo dall’intervento delle forze dell’ordine.
Per escludere la sussistenza del reato di porto abusivo di arma, è poi necessario che l’inefficienza di quest’ultima sia assoluta e rigorosamente provata (19).

V – Uso di arma sportiva per finalità diverse

L’autorizzazione al porto di un’arma per un uso sportivo non rende legittimo il porto della stessa ove effettuato per finalità diverse da quella consentita dal provvedimento amministrativo (20). Va segnalata, in contrasto con il rappresentato orientamento ermeneutico, l’interpretazione secondo la quale l’autorizzazione al porto di fucile rilasciata per l’esercizio della caccia, o dello sport del tiro a volo, rende legittimo il porto di detta arma anche se attuato non per l’attività venatoria, o per quella sportiva, ma per fini diversi, compresi quelli non leciti. Le finalità per le quali il titolare di una licenza si avvalga dell’autorizzazione concessagli, infatti, sono in genere penalmente irrilevanti, ferma restando la sanzionabilità in via amministrativa (e penale) dell’eventuale abuso accertato, che può essere colpito da provvedimenti sospensivi o ablativi dell’autorizzazione. Per tale orientamento, la possibilità di portare un’arma da fuoco al di fuori della propria abitazione rappresenta un diritto del cittadino, anche se il suo concreto esercizio è subordinato, per motivi di sicurezza pubblica, all’autorizzazione (licenza) dell’Autorità di P.S. Una volta concessagli la licenza di porto d’arma, il cittadino può esercitare il suo diritto di girare armato, e l’esercizio, ancorché illecito, di tale diritto non incide sulla legittimità dell’autorizzazione (21).

VI – Elemento soggettivo del reato

L’elemento psicologico del delitto di detenzione illegale di arma è rappresentato dal dolo generico, consistente nella volontà cosciente di detenere l’arma, senza averne fatta denuncia all’autorità di polizia (22).

VII – Omessa denuncia della detenzione

La fonte dell’obbligo di denuncia dell’arma è stata modificata; inizialmente, l’art. 58, comma 3, reg. esec. T.U.L.P.S. prevedeva che, in caso di trasferimento di armi da sparo, munizioni o materiale esplodente da una località all’altra dello Stato, l’autore, salvo l’obbligo di dare avviso del trasporto a norma dell’art. 34 dello stesso T.U., dovesse ripetere la denuncia di detenzione, prevista dal successivo art. 38, nella località di destinazione del materiale stesso.
Non essendo stata mai abrogata formalmente, tale disposizione è rimasta in vigore, ma vi si è sovrapposta la norma — efficace a far data dal 1° luglio 2011 — introdotta dall’art. 3, comma 1, lett. e), punto b), d.lgs. n. 204 del 2010, la quale ha inserito nell’art. 38 T.U.L.P.S., mediante l’interpolazione di un comma quinto (ora divenuto settimo), la previsione secondo la quale «la denuncia di detenzione di cui al primo comma deve essere ripresentata ogni qual volta il possessore trasferisca l’arma in un luogo diverso da quello indicato nella precedente denuncia». Il raffronto tra le due disposizioni fa risaltare il diverso ambito spaziale cui si correla il trasferimento assoggettato ad obbligo di denuncia. Il riferimento non è più alla diversa località dello Stato, ma, più genericamente, ed estensivamente, al luogo diverso da quello indicato nella precedente denuncia (23). Pertanto, l’obbligo di ripetizione della denuncia sorge anche se il trasporto avvenga nell’ambito della stessa circoscrizione territoriale, di competenza del medesimo ufficio locale di pubblica sicurezza, dove era stata presentata quella iniziale. Tale soluzione tiene conto della finalità perseguita dall’imposizione dell’obbligo che, analogamente a quanto previsto per la denuncia originaria, deve consentire all’autorità pubblica di avere contezza del luogo di conservazione di ciascuna arma, al fine di effettuare eventuali controlli (24).
Deve precisarsi che in questo caso non si applica il termine di 72 ore, previsto dal medesimo art. 38, primo comma, in quanto l’autorità di pubblica sicurezza conosce l’esistenza dell’arma e l’identità di chi ne ha la detenzione e può apprendere il luogo di custodia, utilizzando la denuncia di trasporto o interpellando il detentore (25). Ne consegue che la violazione dell’obbligo in oggetto, a partire dalla data del 1° luglio 2011, non può più ritenersi sanzionata ai sensi dell’art. 221 T.U.L.P.S., norma meramente sanzionatoria delle contravvenzioni alle disposizioni del regolamento di esecuzione. La risposta punitiva quindi è nell’art. 17, primo comma, T.U.L.P.S., in base al quale sono assoggettate alle pene ivi stabilite le violazioni alle disposizioni del testo unico, per le quali non è stabilita una pena od una sanzione amministrativa ovvero non provvede il codice penale.

VIII – Ricettazione

Anche in materia di armi risponde del reato di ricettazione l’imputato che, trovato nella disponibilità di refurtiva di qualsiasi natura, in assenza di elementi probatori indicativi della riconducibilità del possesso alla commissione del furto, non fornisca una spiegazione attendibile dell’origine del possesso (26).

IX – Sequestro e perquisizione

In materia di armi il divieto di restituzione previsto dall’art. 324, comma 7, cod. proc. pen. opera, oltre che con riguardo al sequestro preventivo, anche in caso di annullamento del decreto di sequestro probatorio (27). Inoltre, deve ricordarsi che la polizia giudiziaria è legittimata a compiere, anche sulla base di notizie confidenzialmente apprese, perquisizioni di iniziativa nel caso di sospetto di illecita detenzione di armi e sostanze stupefacenti, in forza del disposto dell’art. 41 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, e dell’art. 103 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (28); in ogni caso, l’eventuale illegittimità dell’atto di perquisizione compiuto ad opera della polizia giudiziaria non comporta effetti invalidanti sul successivo sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, che costituisce un atto dovuto a norma dell’art. 253, comma primo, cod. proc. pen. (29).

 

X – Una particolare aggravante

L’art. 72 del d.lgs. 159/2011 (cd. Codice anti mafia) prevede che le pene stabilite per i reati riguardanti le armi alterate, le armi da guerra o tipo guerra e le relative munizioni di cui all’art. 2, commi 1 e 2, l. 110/75, sono aumentate per il recidivo che abbia commesso il nuovo delitto durante o dopo l’esecuzione della pena, ovvero durante la latitanza, qualora il recidivo stesso sia persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione personale durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l’esecuzione.
L’aggravante in questione non trova però applicazione nell’ipotesi di condotte delittuose commesse dall’imputato mentre era sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari (così come anche in detenzione domiciliare), essendo in tale periodo sospesa l’efficacia della misura di prevenzione (30).
XI – L’importazione delle armi dall’estero
Ai fini dell’importazione dall’estero di armi comuni da sparo è necessario il rilascio di apposita licenza del Questore (ex art. 12, l. n. 110 del 1975, art. 31, T.U.L.P.S.; artt. 46 e 48, d.P.R. n. 635 del 1940). L’art. 13, l. n. 110 del 1975 stabilisce che per l’importazione definitiva la dogana, cui sono presentate le armi, dopo la nazionalizzazione deve curarne l’inoltro al BNP di Gardone Val Trompia, a spese dell’importatore. Il Banco è l’ente di diritto pubblico al quale il comma 12-sexiesdecies dell’art. 23, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, conv. dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, ha attribuito — a seguito della soppressione del Catalogo nazionale delle armi — il compito di verificare, per ogni arma prodotta, importata o commercializzata in Italia, la qualità di arma comune da sparo, nonché la sua corrispondenza alle categorie di cui alla normativa europea. Devono pertanto essere sottoposte a prova, oltre alle armi fabbricate in Italia e a quelle demilitarizzate, anche le armi importate dall’estero qualora non portino il marchio della prova già subìta presso un Banco riconosciuto (art. 11, commi 4 e 5, l. n. 110 del 1975). In tal caso l’importatore deve curare i necessari adempimenti (comma 4), presentando motivata richiesta al BNP, vistata dall’ufficio di pubblica sicurezza. Effettuate le verifiche prescritte, il Banco imprime uno speciale contrassegno sull’arma e annota l’operazione in uno specifico registro (art. 11, commi 2 e 3). Qualora le armi non superino la prova prescritta dalla legge (art. 1, l. n. 186 del 1960), ovvero la verifica prevista dall’art. 23, comma 12-sexiesdecies, d.l. n. 95 del 2012, il Banco ne dà avviso all’importatore (o produttore) il quale, entro i successivi 30 giorni, può chiederne la rispedizione all’estero, ovvero scegliere di rottamarle (art. 14, l. n. 110 del 1975).
L’art. 23, l. n. 110 del 1975, definisce armi clandestine: 1) le armi comuni da sparo non sottoposte alla verifica del Banco di prova (ex art. 23, comma 12-sexiesdecies, d.l. n. 95 del 2012); 2) le armi comuni sprovviste dei contrassegni di cui all’art. 11 della medesima legge. I successivi commi dell’art. 23 puniscono chi fabbrica, introduce nello Stato, commercia, cede armi clandestine (comma 2); chi detiene quelle armi (comma 3), nonché colui che le porta in luogo pubblico o aperto al pubblico (comma 4). Il comma 6 introduce una causa di non punibilità in relazione a colui che effettua il trasporto di armi comuni da sparo prive dei segni di identificazione prescritti al Banco nazionale di prova per l’importazione.
La ratio della norma incriminatrice di cui all’art. 23 legge 18 aprile 1975, n. 110, è stata pacificamente ravvisata nell’esigenza di sottoporre a costante controllo tutte le armi comuni da sparo e le persone legittimate a detenerle, e a garantire la facile ed immediata controllabilità dell’arma ai fini di un pronto riconoscimento della sua provenienza (31). Si è pertanto ritenuto che la mancanza anche di uno solo degli elementi prescritti dall’art. 11 della legge n. 110 del 1975, ivi compreso il numero progressivo di matricola e contrassegno speciale del Banco nazionale di prova di Gardone Val Trompia, rende le armi prodotte in Italia clandestine (32).
Una recente sentenza della Corte di cassazione (33) ha annullato senza rinvio una sentenza di condanna rilevando che le armi sequestrate al ricorrente erano state importate in Italia da una armeria e, pur essendo state nazionalizzate, non erano ancora state inviate al Banco di prova, sicché esse erano prive dei relativi punzoni, nonché di quelli di altro Banco riconosciuto. Nonostante ciò, non potevano ancora qualificarsi come clandestine. Esse, infatti, erano perfettamente tracciabili: la competente Questura aveva rilasciato apposita autorizzazione alla loro importazione; erano transitate dalla dogana che le aveva nazionalizzate; la Questura era informata del loro trasporto all’imputato avendolo specificamente autorizzato. Gli stessi Uffici doganali avevano incaricato dell’inoltro delle armi al Banco di prova l’importatore, il quale aveva comunicato a tale ente di aver delegato il ricorrente. Tutti tali elementi attestano come non solo l’ingresso delle armi in Italia fosse a conoscenza dell’autorità di pubblica sicurezza, la quale aveva rilasciato apposita licenza, nonché della dogana, ma anche i successivi spostamenti, e in particolare la consegna all’imputato, erano stati resi noti alla Questura che aveva rilasciato apposita autorizzazione. Pertanto, è stato ritenuto che la detenzione delle armi, oltre ad essere tracciata, era temporanea, in quanto finalizzata alla consegna al Banco di prova per le operazioni di cd. “bancatura”, come risultante dalla delega a tal fine effettuata dall’importatore e comunicata allo stesso BNP.
D’altra parte, la normativa vigente non prevede alcun termine per l’effettuazione di tale operazione, men che meno un termine perentorio, non rilevando quello previsto dall’art. 14, comma 2, l. n. 110 del 1975, il quale si riferisce alle armi che non abbiano superato la verifica del Banco e che entro tale termine devono essere rottamate ovvero rispedite all’estero; neppure rileva il termine assegnato all’importatore dagli Uffici doganali per la consegna delle armi al Banco di prova, termine che non è previsto come perentorio. In assenza di una specifica previsione in tal senso, illogica è stata ritenuta la conclusione cui era pervenuta la Corte territoriale, la quale aveva ritenuto che l’inoltro delle armi importate debba essere immediato, e ciò tanto più alla luce dell’art. 11, comma 5, l. n. 110 del 1975, il quale stabilisce che, qualora le armi comuni da sparo introdotte dall’estero manchino dei segni distintivi apposti da altro Banco di prova riconosciuto, è a carico dell’importatore l’onere di «curare i necessari adempimenti», senza stabilire alcun limite temporale. Infine, neppure risulta esclusa la possibilità per l’importatore di delegare un altro soggetto per effettuare tale inoltro.

 

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4 – La sentenza n. 5/2023 della Corte costituzionale

La Consulta, con sentenza n. 5 del 2023 (depositata il 24 gennaio 2023), ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 6 della legge n. 152 del 1975 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico).
Con il primo gruppo di questioni, il rimettente aveva prospettato censure — in riferimento agli artt. 27, secondo comma, 42, secondo comma, 11 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi in relazione agli artt. 6, paragrafo 2, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, 17 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea — al citato art. 6 «nella parte in cui impone al giudice di disporre la confisca delle armi anche in caso di estinzione del reato per oblazione». Con il secondo gruppo di questioni, il rimettente ha articolato denunce rispetto alla medesima disposizione — per allegato contrasto con gli artt. 3, 27, 42, nonché 11 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU e agli artt. 17 e 49, paragrafo 3, CDFUE — «nella parte in cui prevede come obbligatoria la confisca delle armi anche in relazione alla contravvenzione di cui all’art. 38 del r.d. n. 733/1931». L’imputato aveva chiesto pronunciarsi declaratoria di estinzione del reato con restituzione delle armi sequestrate, ma il giudice aveva osservato che l’istanza di restituzione non poteva essere accolta, ostandovi il disposto del censurato art. 6 della legge n. 152 del 1975, che impone la confisca delle armi in questione, ancorché di valore economico assai superiore alla modesta entità dell’ammenda corrisposta per il reato in contestazione.
L’art. 6, nel richiamare il primo capoverso dell’art. 240 cod. pen., secondo l’interpretazione elaborata dal diritto vivente (cfr., per tutte, Corte cass. n. 54086 del 2017, Rv. 272085-01) impone la confisca delle cose ivi indicate, pure a fronte della declaratoria di estinzione del reato per oblazione, salve le ipotesi dell’assoluzione nel merito dell’imputato o dell’appartenenza della res a persona estranea al reato.
Ad avviso del giudice rimettente, la rilevanza della questione discendeva dal fatto che la restituzione delle armi sarebbe prospettabile soltanto laddove le questioni fossero accolte e, in punto di non manifesta infondatezza, nel caso, l’effetto ablativo del diritto di proprietà dell’imputato si produrrebbe in assenza di accertamento sulla sua responsabilità, se non nei ristretti limiti dell’insussistenza di una evidente causa di assoluzione nel merito, considerate le peculiarità del procedimento per oblazione.
Alla confisca ex art. 6 della legge n. 152 del 1975 disposta in esito all’estinzione del reato per oblazione sarebbero estensibili le considerazioni sviluppate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo concernenti la cosiddetta confisca urbanistica (cfr., per tutte, Grande camera, 28 giugno 2018, GIEM srl e altri contro Italia), secondo cui una misura ablativa del diritto di proprietà risulta compatibile con gli artt. 6, paragrafo 2, e 7 CEDU e 1 Prot. addiz. CEDU solo se adottata con una sentenza di condanna «o comunque a seguito di un accertamento garantito, non essendo sufficiente una sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato […] a meno che la stessa non sia stata preceduta, secondo l’ultimo approdo interpretativo condiviso anche dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite (Cass. S.U., sentenza n. 13539 del 30 gennaio 2020 […]), da un accertamento equivalente ad una pronuncia di condanna per la sua latitudine e modalità di formazione, essendo esteso alla sussistenza del fatto e alla responsabilità del reo e formatosi all’esito di un giudizio caratterizzato dalla partecipazione in contraddittorio delle parti».
Il secondo gruppo di questioni sollevate riguardava, invece, l’art. 6 della legge n. 152 del 1975 nella parte in cui prevede come obbligatoria la confisca anche in relazione alla violazione di cui all’art. 38 T.U.L.P.S., argomentando che l’obbligatorietà della confisca medesima, unita all’assenza di rimedi esperibili dall’imputato (tesi ad evitare il relativo pregiudizio patrimoniale), anche a fronte di una violazione di minima offensività come quella prevista dall’art. 38 T.U.L.P.S., contrasterebbe con gli artt. 3, 27 e 42 Cost., nonché con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi in relazione agli artt. 1 Prot. addiz. CEDU, e 17 e 49 CDFUE, i quali «nel riconoscere e tutelare la proprietà privata, impongono al legislatore di prevedere che le sanzioni, di carattere penale o anche solo amministrativo, che incidono su beni tutelati dall’ordinamento costituzionale o convenzionale siano ragionevoli, individualizzanti e proporzionate in rapporto alla gravità del fatto e alla personalità del reo e che le stesse siano altresì congrue e coerenti rispetto agli scopi perseguiti dal legislatore».
L’art. 6 della legge n. 152 del 1975, prevedendo una confisca obbligatoria in relazione a tutti i reati concernenti le armi, finirebbe per applicarsi a ipotesi criminose di disvalore profondamente diverso e oggettivamente non comparabile, «dai delitti di fabbricazione, introduzione nello Stato, vendita di armi da guerra, porto in luogo pubblico o detenzione di armi illegalmente detenute o addirittura clandestine alle ben più modeste ipotesi contravvenzionali» tra cui quella in specie contestata all’imputato, di «omesso (o semplicemente ritardato, secondo quanto dedotto nell’istanza di restituzione) obbligo di comunicare all’Autorità di P.S. il trasferimento, dal vecchio al nuovo domicilio, delle armi dallo stesso legalmente denunciate in precedenza e delle quali, dunque, la Pubblica Autorità già conosceva tipologia, caratteristiche, numero e soggetto responsabile della detenzione».
Si tratterebbe dunque — ad avviso del rimettente — di un’equiparazione ingiustificata e viziata da plurimi profili di irragionevolezza: in primo luogo, la confisca di armi pertinenti a un determinato reato non impedirebbe all’imputato di continuare a detenerne legittimamente altre, «le quali, anche in caso di sequestro, andrebbero necessariamente restituite», ciò che comproverebbe la funzione prevalentemente sanzionatoria della misura in questione; in secondo luogo, la presunzione assoluta di «inaffidabilità» connessa alla confisca obbligatoria conseguirebbe a una violazione puramente formale e di modesta gravità, come si profila quella prevista dall’art. 38 T.U.L.P.S., laddove l’ordinamento prevedrebbe la facoltatività della confisca in ipotesi ben più allarmanti di reati realizzati «avvalendosi delle armi», come la minaccia commessa con l’uso di un’arma.
Ciò premesso, la Corte costituzionale ha affrontato i due differenti ordini di questioni, tra loro in rapporto subordinato, in quanto il secondo gruppo di censure era prospettato per l’ipotesi di mancato riconoscimento della fondatezza del primo gruppo che muove, come si è riferito, dall’assunta natura sostanzialmente “punitiva” della confisca obbligatoria prevista dalla disposizione censurata.
I rilievi riguardavano la violazione della presunzione di non colpevolezza, garantita dall’art. 27, secondo comma, Cost., dagli artt. 6, paragrafo 2, CEDU e 48 CDFUE, nonché la lesione del diritto di proprietà, tutelato dagli artt. 42 Cost., 1 Prot. addiz. CEDU e 17 CDFUE, che sarebbe ingiustificatamente inciso dalla misura ablativa all’esame. Anche laddove non si riconoscesse la natura “punitiva” della confisca prevista dalla disposizione censurata e non si ritenesse, pertanto, costituzionalmente illegittima la sua applicazione in sede di declaratoria di estinzione del reato per intervenuta oblazione, ad avviso del rimettente l’obbligo di disporre tale misura ablatoria da parte del giudice nel caso di violazioni dell’art. 38 T.U.L.P.S. si risolverebbe in una irragionevole e sproporzionata limitazione del diritto di proprietà, così come riconosciuto dalle medesime norme nazionali e sovranazionali poc’anzi menzionate, e in una conseguente ulteriore violazione degli artt. 3 e 27 Cost., nonché dell’art. 49, paragrafo 3, CDFUE.
Muovendo dall’imputazione formulata nel giudizio a quo, è stato osservato che la violazione contestata risultava unicamente essere quella di cui al settimo comma dell’art. 38 T.U.L.P.S., che dispone: «la denuncia di detenzione di cui al primo comma deve essere ripresentata ogni qual volta il possessore trasferisca l’arma in un luogo diverso da quello indicato nella precedente denuncia. Il detentore delle armi deve assicurare che il luogo di custodia offra adeguate garanzie di sicurezza». Tale disposizione, osserva la Consulta, è stata introdotta con decreto legislativo 26 ottobre 2010, n. 204 (Attuazione della direttiva 2008/51/CE, che modifica la direttiva 91/477/CEE relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi); in precedenza, l’obbligo di ripresentare denuncia di detenzione in caso di trasferimento «da una località all’altra del territorio dello Stato» di armi, munizioni e materie esplodenti già denunciati era previsto dall’art. 58, terzo comma, del r.d. n. 635 del 1940.
In caso di violazione dell’art. 38, settimo comma, T.U.L.P.S., trova applicazione, secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, l’art. 17, primo comma, T.U.L.P.S., secondo cui «salvo quanto previsto dall’art. 17-bis, le violazioni alle disposizioni di questo testo unico, per le quali non è stabilita una pena od una sanzione amministrativa ovvero non provvede il codice penale, sono punite con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 206» (cfr., per tutte, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 16 novembre 2017), cui si applica l’art. 6 della legge n. 152 del 1975, in questa sede censurato, a tenore del quale «il disposto del primo capoverso dell’articolo 240 del codice penale si applica a tutti i reati concernenti le armi, ogni altro oggetto atto ad offendere, nonché le munizioni e gli esplosivi» (cfr., per tutte, Cass., n. 3802 del 2022, Rv. 282541-01, n. 32333 del 2019, non mass.).
La confisca in oggetto — ha osservato la Corte — va applicata non solo in caso di condanna, ma anche di applicazione della pena su richiesta delle parti (cfr. Corte cass. n. 2738 del 2021, dep. 2022, Rv. 282541), di proscioglimento per particolare tenuità del fatto (Corte cass. n. 54086 del 2017, Rv. 272085), di archiviazione del procedimento per motivi diversi dall’insussistenza del fatto (Corte cass. n. 20508 del 2016, n. 20508, Rv. 266894), di estinzione del reato per prescrizione (Corte cass. n. 43699 del 2021, non mass.), nonché di estinzione del reato per oblazione (Corte cass. n. 6919 del 2022, non massimata).
Fatte tali premesse, la Corte costituzionale ha ritenuto le questioni proposte in via principale infondate. Innanzi tutto, è stato evidenziato che la confisca riveste una funzione essenzialmente preventiva, anziché punitiva: la natura delle varie forme di confisca deve essere valutata in relazione alla specifica finalità e al peculiare oggetto di ciascuna di esse, nella consapevolezza — emersa già in pronunce assai risalenti della Corte cost. (sentenze n. 46 del 1964 e n. 29 del 1961) — della estrema varietà di disciplina e funzioni che, nell’ordinamento italiano, presentano le confische.
Nel caso, secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass., sentenza n. 27895 del 2016, Rv. 267657) la ratio dell’obbligo di comunicare all’autorità di pubblica sicurezza il trasferimento di armi, in precedenza regolarmente denunciate, risiede nella necessità di garantire che tale autorità abbia in qualsiasi momento contezza del luogo in cui l’arma è detenuta, anche al fine di effettuare i controlli ritenuti opportuni. Si mira, in sintesi, a garantire la piena tracciabilità dell’arma medesima, secondo quanto stabilito dal diritto dell’Unione europea, in particolare in ossequio alla direttiva 2021/555/UE (sul controllo dell’acquisizione e della detenzione delle armi).
Pertanto, il mancato adempimento dell’obbligo di comunicazione del trasferimento — e dunque del luogo in cui l’arma, pur in precedenza legittimamente detenuta, si trova attualmente — frustra l’obiettivo, perseguito dal legislatore italiano in adempimento di un preciso obbligo europeo, di avere contezza in ogni momento dell’ubicazione dell’arma, ciò che crea un potenziale pericolo che la misura ablativa mira ad eliminare.
Secondo il Giudice delle leggi, la funzione punitiva della confisca assume, nel caso scrutinato, un rilievo secondario rispetto alla descritta attitudine preventiva, così destituendo del necessario fondamento logico l’intero primo gruppo di censure che, muovendo dal contrario presupposto della natura essenzialmente punitiva della confisca in parola, assumono la violazione della presunzione di non colpevolezza (e, in seconda battuta, dello stesso diritto di proprietà).
Anche affrontando il secondo gruppo di rilievi, la Corte ha concluso in termini analoghi: come premesso, si tratta di censure svolte in ordine logico subordinato, postulando che, anche ove si riconosca alla confisca di cui si tratta natura preventiva e non già punitiva, essa comunque ridonderebbe in una limitazione irragionevole e sproporzionata del diritto di proprietà dell’interessato, con conseguente violazione degli artt. 3, 27 e 42 Cost., nonché degli artt. 1 Prot. addiz. CEDU e 17 e 49 CDFUE.
Ad avviso del rimettente, pure in tale ipotesi, dovrebbe ritenersi la misura ablatoria limitare irragionevolmente, e comunque sproporzionatamente, il diritto di proprietà dell’interessato, con conseguente violazione degli artt. 3, 27 e 42 Cost., nonché degli artt. 1 Prot. addiz. CEDU e 17 e 49 CDFUE. La confisca in parola, obbligatoria nell’ipotesi di inosservanza degli obblighi posti dall’art. 38 T.U.L.P.S., comma 7, costituirebbe misura irragionevole, finendo per equiparare il trattamento previsto per reati di assai differente disvalore, quali condotte non particolarmente gravi (così, il reato oggetto del procedimento a quo) e delitti molto gravi, come la fabbricazione, l’importazione o la vendita illecite di armi da guerra; d’altro canto tale misura non sarebbe invece prevista — di qui, l’ulteriore profilo di irragionevolezza — per violazioni rilevanti, per esempio la minaccia commessa con l’uso di un’arma.
Il profilo di irragionevolezza verrebbe altresì in gioco poiché, contraddittoriamente, l’ordinamento non fa divieto alla persona colpita dal provvedimento ablatorio di detenere altre armi.
Ciò premesso, la Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la censura formulata in relazione all’art. 27 Cost., «che — in difetto di indicazione del comma ritenuto violato — sembra essere stato evocato quale parametro “di rinforzo” rispetto all’allegata violazione del principio di proporzionalità della misura.». Il parametro risulta inconferente, qualora si muova dal presupposto, a base del secondo gruppo di questioni, della natura preventiva, e non punitiva, della misura stessa e della conseguente inoperatività dei principi di personalità della responsabilità penale e di necessaria funzione rieducativa. Analoga ragione osta a ravvisare la fondatezza della censura formulata in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, inapplicabile a misure non aventi carattere punitivo, come la confisca di cui si tratta.
La Consulta si è poi soffermata sull’incidenza della confisca in esame sul patrimonio dell’interessato e del suo carattere proporzionato o meno, alla luce dei parametri costituzionali e sovranazionali che tutelano il diritto di proprietà (art. 42 Cost., nonché art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, e artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 17 CDFUE): in proposito, ha affermato che la tracciabilità delle armi legittimamente presenti sul territorio italiano e la garanzia, per l’autorità di pubblica sicurezza, di conoscerne il luogo di custodia sono esigenze perseguite dal legislatore anche mediante la previsione della confisca obbligatoria delle armi, allorché il loro possessore non abbia comunicato il loro trasferimento in una nuova sede.
L’ablazione della proprietà che ne discende non appare affatto irragionevole, non essendo né inidonea, né non necessaria e neppure non proporzionata rispetto all’obiettivo di garantire la tracciabilità delle armi e l’affidabilità del (pur legittimo) titolare rispetto alla detenzione di tali strumenti.
Parimenti non fondati sono stati ritenuti gli ulteriori profili di contrasto con l’art. 3 Cost. prospettati dal rimettente, sia sotto il profilo a) dell’irragionevole equiparazione di trattamento tra situazioni diverse o, all’opposto, b) di irragionevoli disparità di trattamento tra situazioni analoghe, sia c) sotto il profilo “intrinseco”.
Con riferimento all’agitata disparità di trattamento tra autori di reati di differente disvalore, la Corte costituzionale ha osservato che, trattandosi di una misura a contenuto preventivo e non già punitivo, ha scarso significato comparare la gravità del reato che ne costituisce il presupposto legale ad altre condotte penalmente illecite, posto che il reato presupposto svolge il ruolo di “occasione”, più che di “causa”, rispetto alla misura ablativa medesima.
Quanto al profilo sub b), relativo alla mancata previsione di una confisca obbligatoria nel caso di reato non già «concernente le armi» ai sensi dell’art. 6 della legge n. 152 del 1975 ma posto in essere “a mezzo” di armi (il richiamo riguarda la minaccia commessa con l’uso di armi), la Consulta ha rilevato che, anche ove si ritenesse irragionevole la mancata inclusione nella disciplina censurata di simili ipotesi, a tale supposta irragionevolezza la Corte medesima non potrebbe certo porre rimedio.
Rispetto, infine, al rilievo sub c), secondo cui l’essere destinatario di confisca obbligatoria non impedirebbe all’interessato di detenere altre armi, il Giudice delle leggi — sulla base della giurisprudenza amministrativa (tra cui, Cons. Stato, sezione terza, sentenza 13 settembre 2017, n. 4334) — ha ricordato che la violazione delle norme relative alla comunicazione del trasferimento delle armi di cui all’art. 38, settimo comma, T.U.L.P.S. può essere considerata quale indice di scarsa affidabilità soggettiva e, pertanto, legittimare l’imposizione, da parte del prefetto, di un generale divieto rivolto all’interessato di detenere armi, ai sensi del già menzionato art. 39 T.U.L.P.S.
La Corte costituzionale — così indicando la via dell’interpretazione costituzionalmente orientata — ha rimarcato tuttavia che, laddove, come nel caso di specie, la confisca sia imposta dal giudice con la sentenza che dichiara l’estinzione per intervenuta oblazione della contravvenzione di cui agli artt. 17 e 38 T.U.L.P.S., è necessario che il provvedimento ablatorio sia pronunciato all’esito dell’accertamento dei presupposti che ne giustificano l’applicazione.
Quindi, in linea con la propria giurisprudenza (Corte cost., n. 49 del 2015) e con la giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. U. n. 13539 del 2020) in tema di confisca urbanistica e declaratoria di estinzione del reato, la Consulta ha sottolineato la necessità che il giudice accerti, ai fini dell’applicazione della misura ablativa, il relativo presupposto legale, cioè la sussistenza del reato e la sua commissione da parte dell’imputato.
Tale accertamento non appare superfluo, pur a fronte della formulazione della domanda di oblazione, atteso che l’art. 162-bis cod. pen. demanda al giudice una serie di verifiche prodromiche all’accoglimento della domanda, nell’ambito del cui procedimento — nel contraddittorio tra le parti — potrà essere accertata la sussistenza dei presupposti della confisca (vale a dire la commissione del reato da parte dell’imputato) di cui verrà dato conto in motivazione.
Recentemente la Corte di cassazione (34) ha statuito che, anche a seguito della citata sentenza della Consulta, è consentito alla Corte di legittimità — investita dell’impugnazione del pubblico ministero — di disporre l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata e la confisca delle armi quando emerga dalla sentenza stessa e dagli altri atti richiamati l’accertamento, in punto di fatto ed in contraddittorio con la difesa, dei presupposti applicativi della confisca medesima, sicché il rinvio al giudice di merito risulti superfluo ai sensi dell’art. 620, lett. l), cod. proc. pen.

Giorgio Poscia

Consigliere della Prima Sezione Penale della Corte di cassazione

 

NOTE

1) Si pensi, ad esempio, al secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America in base al quale “Essendo necessaria una milizia ben regolata per la sicurezza di uno Stato libero, il diritto del popolo di tenere e portare armi, non può essere violato.” (“A well regulated Militia being necessary to the security of a free State, the right of the people to keep and bear Arms, shall not be infringed”).
2) Per i magistrati (ed altre specifiche categorie) è poi previsto il porto d’armi, senza autorizzazione amministrativa, ai sensi dell’art. 7 l. 36/1990.
3) Tra le altre: Cass. Sez. 1, sentenza n. 9 del 10/01/1992, Ceccherini, Rv. 191120-01.
4) Cass. Sez. 1, sentenza n. 37208 del 14/11/2013, dep. 2014, Carnicelli, Rv. 260776-01.
5) Cass. Sez. 1, sentenza n. 45548 del 23/09/2015, Marchesi, Rv. 265278-01; Cass. Sez. Feriale, sentenza n. 33604 del 30/08/2012, Luciani, Rv. 253427-01; Cass. Sez. 1, sentenza n. 16785 del 07/04/2010, Pierantoni, Rv. 246947-01; Cass. Sez. 1, sentenza n. 10979 del 03/12/2014, dep. 2015, Campo, Rv. 262867-01; Cass. Sez. 3, sentenza n. 4220 del 21/12/2010, dep. 2011, Gueye, Rv. 249315-01.
6) Cass. Sez. 1, sentenza n. 21780 del 20/07/2016, dep. 2017, Rv. 270263 – 01.
7) Cass. Sez. 2, sentenza n. 14608 del 14/03/2023, Rv. 284404 – 01.
8) Cass. Sez. 2, sentenza n. 1770 del 07/11/1973, dep. 1974, Turrinetti, Rv. 126288-01.
9) Tra le molte: Cass. Sez. 1, sentenza n. 6945 del 18/01/1990, Conte, Rv. 184314-01.
10) Cass. Sez. 5, sentenza n. 18509 del 17/02/2017, Carluccio, Rv. 269994-01; Cass. Sez. 1, sentenza n. 6875 del 05/12/2014, dep. 2015, Colitti, Rv. 262609-01; Cass. Sez. 1, sentenza n. 52526 del 17/09/2014, Raso, Rv. 262186-01.
11) Cass. Sez. 1, sentenza n. 12737 del 20/03/2012, Tomasello, Rv. 252561-01; Cass. Sez. 1, sentenza n. 23861 del 26/05/2010, Giannilivigni, Rv. 247944-01.
12) Cass. Sez. 2, sentenza n. 28911 del 09/07/2008, Petito, Rv. 240636-01; Cass. Sez. 1, sentenza n. 3672 del 20/03/1996, Ferrandes, Rv. 204335-01.
13) Cass. Sez. 1, sentenza n. 11197 del 18/02/2020, Rv. 279047 – 01.
14) Cass. Sez. 1, sentenza n. 4353 del 17/01/2006, P.G. in proc. Ciervo, Rv. 233437; Cass. Sez. 1, sentenza n. 19411 del 22/04/2008, Liotta, Rv. 240180; Cass. Sez. 6, sentenza n. 44420 del 13/11/2008, Reghenzi, Rv. 241659; Cass. Sez. 1, sentenza n. 44066 del 25/11/2010, Di Rosolini, Rv. 249053.
15) Cass. Sez. U, sentenza n. 41588 del 22/06/2017, La Marca, Rv. 270902.
16) Cass. Sez. 6, sentenza n. 46778 del 09/07/2015, Coscione, Rv. 265489; Cass. Sez. 1, sentenza n. 18410 del 09/04/2013, Vestita, Rv. 255687; Cass. Sez. 1, sentenza n. 32967 del 03/06/2010, Casanova, Rv. 248272; Cass. Sez. 1, sentenza n. 7759 del 11/06/1996, Zavettieri, Rv. 205532.
17) Cass. Sez. 3, sentenza n. 46622 del 27/10/2011, Z., Rv. 251967.
18) Cass. Sez. 1, sentenza n. 20935 del 20/05/2008, Ponzo, Rv. 240287, nonché, in motivazione, Cass. Sez. Feriale, sentenza n. 33609 del 30/08/2012, Bedin, Rv. 253425, in cui, in concreto, la detenzione è stata revocata in dubbio a fronte dell’ipotizzato momentaneo maneggio di un’arma a fini di prova.
19) Cass. Sez. 1, sentenza n. 4398 del 23/01/1978, Gangemi, Rv. 138598.
20) Cass. Sez. 1, sentenza n. 44419 del 1° ottobre 2015, dep. 2016, Mongiardo, Rv. 268259; Cass. Sez. 5, sentenza n. 28320 del 12/04/2019, Rv. 276134 – 01, in fattispecie di minaccia della persona offesa mediante l’utilizzo di pistola da parte del titolare della licenza di porto dell’arma per uso sportivo.
21) Cass. Sez. 1, sentenza n. 4476 del 03/11/1992, dep. 1993, Pescucci, Rv. 194277; Cass. Sez. 1, sentenza n. 7072 del 16/05/1995, Piana, Rv. 201729; Cass. Sez. 1, sentenza n. 7563 del 24/04/1997, Roich, Rv. 208260; Cass. Sez. 1, sentenza n. 2798 del 06/02/1998, Bianchini, Rv. 210037; Cass. Sez. 1, sentenza n. 16790 del 26/03/2004, Pardini, Rv. 227927; Cass. Sez. 1, sentenza n. 19771 del 24/04/2008, Franchina, Rv. 240376; Cass. Sez. 1, sentenza n. 8838 del 08/01/2010, Curridori, Rv. 246379; Cass. Sez. 3, sentenza n. 14749 del 20/01/2016, Mereu, Rv. 266391).
22) Ex multis: Cass. Sez. 1, sentenza n. 10130 del 15/07/1981, Bagni, Rv. 150915.
23) Cass. Sez. 1, sentenza n. 27985 del 15/04/2016, Picardi, Rv. 267657.
24) Cass. Sez. 1, sentenza n. 17808 del 02/04/2008, Amato, Rv. 239851; Cass. Sez. 5, sentenza n. 18433 del 21/04/2005, Rita, Rv. 232293; Cass. Sez. 1, sentenza n. 50442 del 25/05/2017, Cammarata, Rv. 271416; Cass. Sez. 1, sentenza n. 7855 del 28/01/2015, Castagna, Rv. 262467.
25) Cass. Sez. 1, sentenza n. 10197 del 16/11/2017, dep. 2018, Iasparra, Rv. 272625.
26) Cass. Sez. 2, sentenza n. 20193 del 19/04/2017, Rv. 270120 – 01.
27) Cass. Sez. U, sentenza n. 40847 del 30/05/2019, Rv. 276690 – 01.
28) Ex multis: Cass. Sez. 4, sentenza n. 38550 del 06/10/2010, Rv. 248837 – 01.
29) Cass. Sez. 6, sentenza n. 37800 del 23/06/2010, Rv. 248685 – 01.
30) Cass. Sez. 1, sentenza n. 30214 del 30/03/2016, Rv. 267328 – 01.
31) Cass. Sez. 1, sentenza n. 2618 del 08/11/1984, dep. 1985, Rv. 168370; Cass. Sez. 1, sentenza n. 7914 del 11/04/1988, Rv. 178828.
32) Cass. Sez. 1, sentenza n. 18778 del 27/03/2013, Reccia, Rv. 256014; Cass. Sez. 1, sentenza n. 25118 del 09/06/2010, Erion, Rv. 247712.
33) Cass. Sez. 1, sentenza n. 1215 del 17/10/2023, dep. 2024, non massimata.
34) Cass. Sez. 1, sentenza n. 13326 del 12/01/2024, Rv. 286116 – 01.