L’occupazione e la disoccupazione dei dirigenti pubblici: l’art. 19 del D.Lgs. n. 165/2001 a vent’anni dalla riforma del pubblico impiego
Uno dei problemi politico-economici che affliggono la nostra società, soprattutto in un tale momento di crisi, è la “disoccupazione”, da intendersi non solo come mancanza di lavoro, ma più in generale come impiego incompleto ed imperfetto, paradossale, delle risorse intellettuali e materiali teoricamente disponibili per il benessere della società.
Un eminente studioso di economia politica del ’900 (J. M. Keynes) aveva individuato nel criterio del tornaconto finanziario la principale causa di una tale situazione, la quale risponde alla logica della “regola autodistruttiva di calcolo finanziario”, che governa ogni aspetto della vita sociale ed economica.
Con una sorta di metafora J. M. Keynes in uno dei suoi saggi [1] aveva affermato che il criterio del “tornaconto finanziario viene utilizzato come test per valutare l’opportunità di intraprendere un’iniziativa di natura sia privata che pubblica”. Secondo l’autore tale teoria si sviluppò nel XIX secolo fino ad un livello stravagante e tale che “ogni manifestazione vitale fu trasformata in una sorta di parodia dell’incubo del contabile. Invece di utilizzare l’immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, si crearono i bassifondi e si pensò che fosse giusto e ragionevole farlo perché questi, secondo il criterio dell’impresa privata, fruttavano, mentre la città delle meraviglie sarebbe stata, si pensava, un atto di follia, che avrebbe, nell’imbecille linguaggio di stile finanziario, ipotecato il futuro”.
Tale ricostruzione è in gran parte superata, poiché deve essere rapportata all’epoca ed alla nazione in cui viveva Keynes (Inghilterra dei primi del novecento), ma la filosofia sottesa a questo tipo di pensiero in fondo risulta attuale ancora oggi.
Quanti punti di contatto si possono intravedere, con quanto accade nella società moderna e nell’attuale scena economico-politica?
La sostanza di questa analisi è che “dobbiamo rimanere poveri, perché non rende essere ricchi”, o meglio, se davvero immaginassimo di utilizzare tutte le nostre migliori risorse, l’innovazione e le migliori intelligenze che possediamo per realizzare la società ideale, l’istituzione ideale o, più in piccolo, la migliore pubblica amministrazione, che cosa accadrebbe? Non esisterebbe più alcun bisogno e nessuno avrebbe più alcuna necessità di manifestare, per chiedere migliori servizi e migliori prodotti per migliorare la sua condizione.
Proviamo allora a capire perché esiste il disagio, l’inefficienza, la disoccupazione dei cervelli e la “non meritocrazia” nell’ambito del lavoro pubblico.
Se non creo o non mantengo il bisogno o se tutti i bisogni sono già stati soddisfatti, come posso poi offrire nuove idee, nuovi prodotti e servizi, nuove speranze di sviluppo capaci di creare profitto? Il profitto è da intendersi in tutte le accezioni possibili del termine e non soltanto come maggior guadagno di tipo monetario.
Una volta raggiunto il “top” ideale, dopo può esserci soltanto il declino che fa paura a tutti, perché sarà un declino globalizzato dove non c’è più profitto per chi detiene il potere, non solo economico. Molto meglio impedire o, nella migliore delle ipotesi, rallentare lo sviluppo delle eccellenze, affinché la meta ideale non sia mai raggiunta, altrimenti non ci sarebbe più profitto, né tensione verso lo sviluppo.
Ma a prescindere da ogni considerazione filosofica o socio-economica e politica in retrospettiva, …..
….. allora forse si può capire perché anche oggi deve esistere il disagio sociale, la disoccupazione e, nell’ambito della pubblica amministrazione, la non meritocrazia, la non valutazione delle eccellenze, la disoccupazione dei cervelli, fino ad arrivare alla creazione di un sistema che non è in grado o non vuole riconoscere, se non a livello di mera affermazione ideale, le capacità professionali di coloro che le posseggono e sono in grado di esprimerle. Perché, altrimenti, il benessere sarebbe globalizzato, cioè troppo esteso a tutti coloro che lo meritano e nessuno di coloro che già appartengono alla élite dirigenziale potrebbe continuare ad esercitare il proprio potere, così faticosamente conquistato, a volte persino senza merito, sempre nell’ottica della “non meritocrazia”.
L’attuale scenario normativo che riguarda il pubblico impiego ed il grado di attuazione delle riforme pensate nel momento in cui (1993) vide la luce la c.d. “privatizzazione del pubblico impiego”, mi porta a formulare alcune riflessioni suggerite da esperienze vissute, alcune delle quali sono positive, altre un po’ meno.
Il D.Lgs. n. 165/2001 è stato il frutto non solo della riforma iniziale del 1993, ma anche di successive reiterate modifiche, integrazioni e ripensamenti che offrono attualmente un quadro un po’ spurio, rispetto a quello che era l’intento iniziale. Rappresenta sicuramente un dato positivo avere sburocratizzato il rapporto di lavoro nel pubblico impiego, affinché venissero recepite alcune regole più snelle anche sotto il profilo della tutela giudiziaria, pur mantenendo però taluni connotati, per così dire, di garanzia che salvaguardano l’immagine del pubblico funzionario; infatti, il dipendente pubblico comunque esplica pubbliche funzioni offrendo prestazioni e servizi i quali hanno caratteristiche il più delle volte del tutto immateriali, ovvero intangibili in quanto costituiscono l’esplicazione dei fini istituzionali della P.A., sempre nell’interesse dello Stato e del cittadino, piuttosto che nell’ottica del perseguimento del profitto o degli interessi di singoli gruppi di potere.
Ma, a distanza di vent’anni dall’entrata in vigore della riforma, ….. si può dire che l’intento non è stato raggiunto. O per meglio dire, la riforma iniziale è stata fatta oggetto di tali e tanti ritocchi che ad oggi forse nemmeno più il legislatore saprebbe darne un’interpretazione autentica.
Anche l’art. 19 del D.Lgs. n. 165/2001 in materia di incarichi di funzioni dirigenziali ha subito diversi rimaneggiamenti, a partire dalla L. n. 145 del 2002 recante “Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato”, per arrivare sino alla più recente riforma di cui al D.Lgs. n. 150 del 2009 contenente nuove norme in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, in attuazione della legge delega n. 15 del 4.3.2009. Ma ciò non è bastato, perché se sembrava che tale testo legislativo dovesse costituire alfine un punto fermo abbastanza solido del processo di riforma, in realtà anch’esso è stato fatto oggetto subito dopo di ritocchi e ripensamenti, alcuni introdotti anche da alcuni testi legislativi “zibaldone”, che in sé e per sé assai poco c’entravano con i principi ispiratori della legge delega n. 15, ma sono stati fatti passare comunque, perché giustificati all’insegna della necessità di razionalizzazione e di contenimento della spesa in tutti i settori; in una parola, nell’ottica della “spending review”, quale espressione che forse, in alcuni casi, nemmeno più il legislatore sa cosa vuole effettivamente dire, cioè in quali provvedimenti concreti debba realmente estrinsecarsi.
Basti pensare al D.L. n. 78 del 2010, poi convertito in L. n. 122 del 30.7.2010, che fra i tanti interventi proposti, all’art. 9, intitolato “Contenimento delle spese in materia di impiego pubblico”, ha inserito alcune disposizioni di ritocco, alcune delle quali appare difficile collegarle razionalmente alla riforma madre. In particolare una di queste disposizioni appare essere stata inserita quasi a viva forza nel testo dell’art. 19 del D.Lgs. n. 165/2001, modificandone radicalmente il senso: da norma di garanzia a norma di azzeramento organizzativo.
Il testo in esame può essere messo a confronto nelle due diverse versioni prima e dopo l’intervento del D.L. n. 78/2010, che ha modificato il co. 1-ter:
Art. 19, co. 1-ter, D.Lgs. n. 165/2001 (comma agg. dall’art. 40 del D.Lgs. n. 150 del 2009):
“Gli incarichi dirigenziali possono essere revocati esclusivamente nei casi e con le modalità di cui all’articolo 21, comma 1, secondo periodo. L’amministrazione che, in dipendenza dei processi di riorganizzazione ovvero alla scadenza, in assenza di una valutazione negativa, non intende confermare l’incarico conferito al dirigente, è tenuta a darne idonea e motivata comunicazione al dirigente stesso con un preavviso congruo, prospettando i posti disponibili per un nuovo incarico.”. [2]
Art. 9, co. 32, D.L. n. 78/2010:
“A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001 che, alla scadenza di un incarico di livello dirigenziale, anche in dipendenza dei processi di riorganizzazione, non intendono, anche in assenza di una valutazione negativa, confermare l’incarico conferito al dirigente, conferiscono al medesimo dirigente un altro incarico, anche di valore economico inferiore.
Non si applicano le eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli; a decorrere dalla medesima data è abrogato l’art. 19, comma 1-ter, secondo periodo, del decreto legislativo n. 165 del 2001 …..”.
Pare abbastanza evidente che, nella nuova formulazione, l’art. 19 consente alle Amministrazioni di disapplicare qualsiasi regola interna di garanzia nel conferimento degli incarichi dirigenziali, con la possibilità di porre in essere un larvato spoil system quando più aggrada, senza doverlo dichiarare e senza doversi giustificare, ponendo seri problemi di incostituzionalità. Infatti, la norma posta dall’art. 19, co. 1-ter (abrogato), intendeva tutelare i principi di imparzialità, buon andamento, efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, garantendo la continuità nell’organizzazione, oltre che i diritti del singolo dirigente.
L’illegittimità costituzionale deriva dalla violazione degli artt. 3, 97 e 98 Cost., per cui la norma di cui al D.L. n. 78/2010 si appalesa non solo iniqua di per sé ed in contrasto con i principi di buon andamento ed imparzialità, ma anche in contrasto con il principio di trasparenza dell’azione amministrativa.
Come si conciliano poi le nuove disposizioni introdotte nell’art. 19, con altre che sono scritte soltanto poche righe prima, al co. 1, per cui “Ai fini del conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati ed alla complessità della struttura interessata, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente …..” ?
Non è dato saperlo.
Se applicate maliziosamente, le nuove disposizioni introdotte dall’art. 9, co. 32, del D.L. n. 78/2010, che non prevedono alcuna motivazione nel caso di mancato rinnovo di un precedente incarico, seppur svolto con competenza e professionalità, potrebbero addirittura dare la stura a provvedimenti di mancato conferimento o mancato rinnovo di incarichi, per meri motivi di mancanza di gradimento o di simpatia personale, ovvero per non meglio precisati motivi politici; infatti, anche se i dirigenti di seconda fascia non sono nominati dal vertice politico, tuttavia il Direttore Generale o il Capo Dipartimento competente può non rinnovare o non conferire alcun incarico, perché potrebbe addirittura essere influenzato da segnalazioni del vertice politico; o, ancora peggio, potrebbe accadere che un dirigente sia preferito ad un altro — che non viene rinnovato — soltanto perché colui che deve decidere deve favorire la carriera di qualcun altro, per imprecisati motivi.
Sta di fatto che l’impresentabile comma 1-ter dell’art. 19 del D.Lgs. n. 165/2001, come modificato dal D.L. n. 78 del 2010, si manifesta come espressione di “arroganza di potere”, che può essere esplicato sempre e comunque nel campo del libero arbitrio, per cui si auspica che possa essere fatto oggetto di abrogazione definitiva, ricostituendo le garanzie previgenti, nel perseguimento del pubblico interesse.
Val la pena di ricordare che già nel lontano 2009 fu indirizzata una segnalazione alla Presidenza della Repubblica per attirare l’attenzione sulla allora imminente presentazione di un decreto legge che avrebbe eliminato tutte le clausole di salvaguardia più sopra menzionate, spianando la strada così ad un ulteriore intervento legislativo studiato per dare mano libera al Governo nell’affidamento di incarichi dirigenziali, cioè senza vincoli posti a tutela di ogni dirigente, per metterlo al riparo da arbitrarie retrocessioni retributive, funzionali, di prestigio e di responsabilità.
Allora fu data una risposta interlocutoria dall’Ufficio di Segretariato Generale [3], nel senso che la questione sarebbe stata posta all’attenzione del Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione; ma evidentemente gli eventi poi si sono evoluti diversamente.
Tanto è vero che, anche in seguito, numerose e reiterate furono le proteste, segnalazioni e proposte emendative del famigerato D.L. n. 78/2010; fra tutte, si citano quelle avanzate dalla Unione Nazionale Dirigenti dello Stato, all’esito di varie manifestazioni e di un convegno organizzati nei mesi di giugno e luglio 2010, che aveva segnalato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni contenute nell’art. 9, commi 1, 2, 3, 4, 21 e 32, del D.L. n. 78/2010 — allora in corso di conversione — per palese violazione dei diritti dei prestatori di lavoro e perché compromettevano gravemente il funzionamento degli uffici pubblici e il buon andamento dell’azione amministrativa [4].
Ma più di recente, si devono citare anche le pregevoli osservazioni e proposte formulate in argomento dalla Associazione Classi Dirigenti delle Pubbliche Amministrazioni, all’esito di un convegno organizzato il 26 giugno 2012, in tema di dirigenza pubblica, crisi dell’indirizzo politico e costi della P.A., che prendono in esame i nodi cruciali del problema [5].
Ma nulla è poi accaduto, forse perché i tempi non erano maturi e già era in atto una profonda crisi della dirigenza pubblica, che — col senno di poi — sembra essersi evoluta di pari passo con la stessa crisi economica.
Ma ora i tempi sono maturi per un cambio di direzione? In verità non sembra facile innescare un meccanismo inverso.
Un problema che tuttora permane — ed esisteva già venti anni fa — è che il dirigente-manager aperto alla comunicazione, all’innovazione ed a nuovi modelli organizzativi non piace, perché erode dall’interno quel potere che invece la struttura gerarchico burocratica vuole mantenere; il burocrate o il politico soprattutto di alto livello, seppur preparato e stimato, si sente più “placidamente” rassicurato dall’esistenza di una struttura gerarchica che non è abituata certo a ragionare con un’ottica sistemica, ma piuttosto ad agire con l’obiettivo della conservazione del proprio potere; obiettivo che il più delle volte viene realizzato avvalendosi della collaborazione di funzionari “yes-men”, che non hanno bisogno di essere preparati ma devono soltanto eseguire. Invece il dirigente-manager è abituato a pensare ed agire in maniera smart ed a volte anche border-line; nel senso che là dove la legge non prevede cosa si deve fare (il legislatore non può sapere tutto), interviene la soluzione innovativa magari basata semplicemente sull’analisi costi/benefici, senza ulteriori fronzoli. Ma viene guardato con sospetto, perché tutto ciò che non è previsto è sicuramente illecito e per di più costituisce un pericolo per il superiore gerarchico, che non ha una cultura manageriale e quindi vede messo in discussione il proprio potere.
Anche i meccanismi di valutazione sono una spia del sistema; infatti, basti pensare alla prassi invalsa presso le Amministrazioni di sottoporre a processi di valutazione le performances dei Dirigenti, secondo procedure burocratiche che sono abbastanza opinabili, quanto — per certi versi — poco trasparenti, perché fondate su regole e strumenti trasferiti passivamente dal settore privato a quello pubblico, senza pensare alla diversità del contesto. Ed è vero che, se i meccanismi di valutazione si basano prevalentemente su sistemi di monitoraggio statistico – formale ex-post, ossia se non esiste un sistema di auditing (on-line) in tempo reale, accade che a fine anno i soggetti preposti alla valutazione richiedano al dirigente “che cosa hai fatto nell’anno precedente?” ed il dirigente, in fretta e furia, deve raccogliere autonomamente i propri dati, accompagnati da relazione, con la relativa validazione da parte del superiore gerarchico, cosicché può accadere che la valutazione sia fatta sulla base di dati parziali, ovvero privilegiando chi sa scrivere meglio o chi è meglio tutelato dal suo superiore. Ma se l’auditing funzionasse mentre vengono realizzate le attività, attraverso sistemi di monitoraggio che acquisiscono dati e notizie automaticamente, gli esiti della valutazione avrebbero probabilmente un risultato ben diverso.
Ma quando la classe politica sarà abbastanza responsabile da poter effettuare scelte mirate a valorizzare in maniera selettiva il merito e la competenza?
Anche in questo caso, al momento, non è dato saperlo.
Laura Pizzorni
Dirigente Ministero Giustizia
[1] “La fine del laissez-faire ed altri scritti economico-politici” – Ed. Bollati Boringhieri 1991 – 2002.
[2] Giova ricordare che vi sono alcuni regolamenti ministeriali, ad esempio il regolamento interno al Ministero della Giustizia, che, non recependo l’innovazione normativa apportata dal D.L. n. 78 del 2010, hanno tuttavia ribadito regole diverse per il conferimento o rinnovo di incarichi dirigenziali (art. 7 D.M. Giustizia del 14.9.2011: “L’incarico di funzione dirigenziale è rinnovabile. L’amministrazione comunica all’interessato, con congruo preavviso, la decisione di non procedere al rinnovo dell’incarico con adeguata motivazione. L’amministrazione garantisce, nel conferimento degli incarichi, la necessaria rotazione del personale anche per l’accrescimento delle professionalità e competenze ….. “).
[3] Fonte Sindacato ex Cida-Unadis.
[4] Fonte Sindacato ex Cida-Unadis con atto di invito del 28.7.2010, indirizzato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed all’ARAN – www.unadis.it.
[5] Atti del Convegno “Quale dirigenza pubblica tra crisi dell’indirizzo politico e nuova costituzione economica?” del 27 giugno 2012 – www.agdp.it.